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Padriciano 2004:
Un Viaggio nella Memoria
Il 9 dicembre 2004 una rappresentanza di Soci
dell'associazione con consorti, si è recata a visitare il Centro Raccolta
Profughi di PADRICIANO (TS) e quindi la foiba di BASOVIZZA sul Carso triestino.
Grazie anche all'ausilio di una guida dell'Istituto Regionale per la Cultura
istriano-fiumano-dalmata di Trieste, abbiamo ripercorso con sofferta attenzione
le tragiche esperienze dei protagonisti di un esodo iniziato già alla fine del
1943, con punte massime nel biennio 1947-1948, e che, dopo la sottoscrizione del
Memorandum di Londra nel 1954, riprenderà nuovamente con la fuga di oltre 50.000
profughi della zona B.
Per una riflessione doverosa su quegli eventi, propongo alcuni brani tratti da
uno scritto di Piero DELBELLO (I.R.C.I.).
"E' l'ultimo atto, anche se non la conclusione, della tragedia istriana, fiumana
e dalmata del dopoguerra. E ha una sigla: C.R.P. (Centro Raccolta Profughi). Un
marchio d'infamia, che non è inciso nella pelle, ma è stampato dalla storia nel
cuore, per gli esuli giuliani che si portano quel cartellino indelebile al
collo. Qualunque vita possano essersi ricostruiti in qualunque luogo. Sempre e
comunque lontano dalla terra della nascita. Non uomini ma numeri, vittime della
pulizia etnica del maresciallo Tito, obbligati dal terrore di macellai più
bestie della Bestia di biblica memoria, quasi che fosse una colpa essere
italiani-e, da un certo punto di vista, lo era- , gli esuli sono stati
sventagliati a frammentarsi socialmente dopo che era già stata consumata la
frantumazione della famiglia e, molto spesso, della personalità. Noi siamo nati
da questa disgregazione multipla.
Siamo vittime ripetutamente:vittime nei fatti, che di per sé sarebbero
innegabili, vittime delle ideologie vincenti, unilaterali nella visione, vittime
di un sistema, quello italiano e democratico, che dal dopoguerra agli anni '80
(e '90, e quanto ancora oggi!) ha lasciato in mano alle sinistre (moderate ed
estreme,ma con il medesimo esito) il concetto di "cultura" e vittime, quindi,
del giudizio dello storico militante (l'unico con la patente). Quello che prima
ha taciuto, rispondendo agli ordini del partito, ed ora "revisiona" il suo
pensiero concedendosi e concedendoci di "ammettere" pur sempre con i "ma" e con
i "però".
Siamo vittime, ancora, di noi stessi, bravi nel lavoro, che significa vita e
famiglia, e quindi società, ma scarsi culturalmente: perché prima si mangia e
poi si pensa. Animaleschi in questo ma non bestiali, formiche industriose e mai
cicale, neanche quando sarebbe servito urlare, abbiamo sofferto e combattuto una
vita per toglierci di dosso l'odore dei Campi Profughi. Che non se ne voleva
andare.
Era un odore intenso: acre e dolce, nato dalla commistione del cibo della mensa
di via Gambini ( e di tutte quelle mense neorealiste sparse per la penisola e le
isole) o del pasto cucinato sulle spirali dei fornelli elettrici appoggiati sul
banchetto nel box (che significava casa per una famiglia) del silos o delle
baracche di San Sabba, con il pungente della naftalina dell'abito stantio,
l'unico, che si toglieva e metteva e con l'odore, quasi sapore, dei capelli che
non potevano essere lavati. Abbiamo ricostruito i pezzi di un "io" disperso
immersi in queste sensazioni che sapevano di minestra, di brodo "finto", di "spazzapan"
e "panadela", di beceri pastoni che costavano poco, di vitamine mancanti, di
anemie congenite, di vestiti (divise) di Beltrame pagate dall'E.C.A., l'Ente
Comunale di Assistenza. Eppure la baracca del campo profughi ce la siamo portata
dietro.
Anche quando ne siamo usciti.
E non solo perché continuavamo ad avere acqua in cortile (e non in casa) e il
gabinetto in comune. Ma perché i nostri genitori, che non ci hanno parlato, ci
hanno, però, trasferito quel senso di pudore e miseria (indotta) che spariva con
difficoltà e lasciava intera l'ombra lunga e cupa. Ci siamo vergognati e abbiamo
continuato a portare la vergogna dentro. E solo dopo troppi anni ci siamo
chiesti perché.
Perché, se tuo padre era un contadino, come lo era tuo nonno,o un pescatore, che
faticava a vincere la vita giorno per giorno, dovevi sentirti colpevole e loro
stessi vivere questa sensazione? Perché una massa di popolo, plebe umile e
onesta, aveva dovuto subire tutto questo? Non lo sapevamo, nessuno ce l'aveva
mai detto, molti dei nostri vecchi non l'hanno mai capito. E se ne sono andati
senza capirlo. Oggi noi restiamo: è questo il luogo della nostra memoria.
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